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Era molto tempo che seguivo le sue tracce. Non riuscivo a beccarlo: sfuggente, in ogni luogo eppure mai così vicino da potergli parlare.

Poi Porfidio Monda — collega di redazione e stella cometa nel mio orientamento nel sociale, sul territorio, e anche consigliere di lettura — mi dà una dritta: mi riserva un posto al Sarno Film Festival, nella bellissima cornice di Villa Lanzara, e io vado. Erri arriva in silenzio, capo chino, senza cercare l’attenzione di nessuno. Gli chiedo se posso fargli un paio di domande. Mi risponde con un sussurro: «Sì».

Cosa vuol dire per Lei abitare il territorio, perché si impegna tanto nella difesa della terra?

Il territorio stabilisce un legame tra il cittadino e la comunità. Credo che una persona sia cittadina se ha il sentimento di stare in una nave da membro dell’equipaggio e non da passeggero. E poi se ha il sentimento di dovere qualcosa al proprio suolo di nascita, e quindi la tutela del territorio oggi maledettamente coincide con la legittima difesa contro le aggressioni delle lavorazioni nocive che vengono lasciate correre senza nessuna tutela nei confronti della vita dei cittadini. La difesa del suolo oggi coincide con la difesa della propria vita.

Come si fa a legare una comunità a un territorio?

Non si può fare. Una comunità che ammette di poter interrare dei rifiuti tossici nel proprio territorio non appartiene a quel territorio. Non appartiene neanche a una comunità. È una specie di crimine che rientra secondo me nella fattispecie dei crimini di guerra in tempo di pace. I crimini di guerra sono quelli che vanno a colpire gli indifesi, non i soldati.

Migrazioni: ci troviamo di fronte a una problematica?

In questo paese sentiamo tutto come una problematica. Anche i giovani. Il ’problema giovani’. Par c’avimm passat nu’ guaj: c’ stanno i giuvn… quelli sono una risorsa, mica un problema.

E finalmente mi sorride. I suoi occhi mi guardano dritto, ora. Fermi, taglienti. I suoi occhi non sorridono.

Intanto io considero insufficienti questi flussi migratori. Sono pochi, ne arrivano pochi rispetto al nostro fabbisogno. In questi anni abbiamo regolarizzato — cioè iscritto all’anagrafe — tre milioni e mezzo di nuovi residenti. Nel frattempo però se ne sono andati all’estero cinque milioni di italiani, di cui la gran parte sono pensionati che hanno legittimamente maturato la pensione ma ingratamente deciso di andarla a spendere fuori Italia. Siamo un paese in saldo negativo, in via di evasione piuttosto che di invasione. I flussi migratori sono insufficienti.

Come si fa a far coesistere queste realtà?

Coesistono: già stanno qua. Tre milioni e mezzo di cittadini, mica li abbiamo invitati noi. Nessuno ha governato questi arrivi. Li abbiamo subiti e basta.» Parliamo ancora di noi e loro. «Sì: noi italiani. E loro so’ gli altri, chill ca ven’n ra for. Gli stranieri, che non sono clandestini. Non c’è questa parola — clandestino — nella scrittura sacra. Nell’Antico Testamento sono tutti stranieri. È un’invenzione moderna questa del clan-de-sti-no. Non c’è nella cultura greca, non c’è in quella latina. Non c’è nella cultura sacra. È una questione recente, una nostra abusiva definizione di straniero.

A proposito di margine, di confine, cosa intravediamo nel Mediterraneo?

Intanto il Mediterraneo non è un confine: il Mediterraneo, come dice Omero, è una via liquida. E chest’è. Il poeta non si è inventato niente: ha constatato quello che è. Il Mediterraneo non è uno sbarramento, né un ostacolo. È un’antica via.

Come si fa in quest’insieme di culture a conservare o a esasperare la propria identità? L’identità è alterità, come coadiuvare i concetti di identità e di accoglienza?

La definizione di identità… Per me noi siamo del Mediterraneo, apparteniamo all’area del Mediterraneo. Se ci facciamo un’analisi non clinica ma storica, dentro il nostro plasma vediamo circolare popoli di tutte le specie che si sono incrociati nel Mediterraneo. Questa è la nostra identità. Mi trovo in difficoltà quando incontro un cinese: chill ven propri ’ra nata part. Anche gli indiani. Non capisco niente delle mosse che fanno. Ma se ho un’identità, per me è quella della civiltà alla quale appartengo, che è propria del Mediterraneo. Poi se vogliamo andare precisamente nelle identità, uno può avere anche un’identità romanista o laziale… o un’identità di quartiere… Ma questi sono dei giochetti. Non sono identitari, sono degli sfizi per differenziarsi, per ribadire un po’ di campanile, fare squadretta.

Mi parla del Suo ultimo libro?

Libro? Quale libro? È un opuscolo che ho fatto per Medici Senza Frontiere e ho reso conto delle settimane che sono stato a bordo con loro. Il titolo è Se i delfini venissero in aiuto. Il seguito della frase è sarebbero anche loro incriminati di immigrazione clandestina, perché c’è una guerra guerreggiata e dichiarata da quest’ultimo governo, — anche da quelli precedenti ma in particolare da questo — nei confronti di questi arrivi. È una guerra guerreggiata, fatta con l’aiuto di forze straniere, pagata da noi. Insomma, i libici fanno il mestiere degli sbirri navali: intervengono perfino in acque internazionali. Non stanno intervenendo all’interno delle loro acque territoriali, ma in acque internazionali vanno ramazzando, rastrellando, barconi che stanno cercando di arrivare e che arrivano lo stesso, però con l’aggravante che vengono aggrediti, rastrellati, da queste guardie costiere libiche che sono pagate e addestrate da noi.

Lei ha una soluzione?

Mah, guarda: le soluzioni vengono da sole. Quello che abbiamo già assorbito. Quello è già la soluzione di queste vicende di viaggi e flussi migratori. La soluzione è già in corso. Noi siamo, le nostre misure sono, degli accidenti in chiave, che cercano di ritardare, far diminuire, contenere, ma non hanno nessuna incidenza. Noi con tutte le nostre misure, oltre che essere criminali, siamo superflui e non incidiamo. I flussi migratori passano, arrivano e proseguono oltre. La gran parte di quelli che sbarcano da noi proseguono oltre.

Sono molto emozionata per aver intervistato Erri De Luca, questo scrittore un po’ vecchio, schivo, che non è mai stato adulto.

Io adesso sono passato all’età anziana, non sono più adulto. Mi piace quel verso di una canzone di Jacques Brel che dice bisogna essere vecchi senza essere adulti. L’adulto, l’età della maturità, quella non l’ho mai conosciuta.

Le mie gambe smetteranno di tremare poco dopo, una volta realizzato che è solo un uomo, di quelli che a poco meno di settant’anni si imbarcano sulle navi semplicemente per fare quello che a bordo fanno tutti: salvare vite umane.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.13, “ABITARE”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — DICEMBRE 2017

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