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«A chi appartieni?» È una domanda che qui al Sud ti fanno le persone più grandi quando le incontri per la prima volta, nei paesini di provincia, per capire da quale famiglia vieni, di chi sei figlio, come se il tuo cognome dicesse loro chi sei.

In casi come questo il cognome della tua famiglia diventa la tua identità e tu o sei figlio di – e quindi fidatissimo a prescindere dal tuo agire –, oppure sei un estraneo, cui guardare con sospetto. È il senso di appartenenza che ci definisce in relazione agli altri e ci inserisce nel sistema valoriale e simbolico in cui viviamo e in cui esercitiamo il nostro ruolo sociale. Quindi, per prima cosa, il nostro rapporto col mondo è un rapporto con l’Altro,[1] che sempre più la società moderna cerca di far assomigliare al Sé, svestendolo della propria alterità con l’obiettivo illusorio di assottigliare la linea di confine, vista come separazione della comfort zone: se sei dentro è sicuro. Così, quanto più il Sè è delineato, quanto più l’identità è rimarcata con tratti e aspetti peculiari di ogni personalità, tanto più l’Altro appare diverso – e le diversità, se non vengono comprese, fanno paura. Ma, siccome non succederà mai che tutti i membri di una comunità si conosceranno personalmente, si dà vita a una comunità immaginata,[2] costituita da legami il cui contenuto, valore, numero ed estensione può essere solo immaginato e non prodotto da relazioni concrete. Ogni territorio abitato poi – che sia casa, città, provincia o nazione – viene immaginato con dei confini, al di là dei quali vi sono gli altri.

CHI È L’ALTRO?

Inizialmente, per la psicoanalisi di Lacan, il luogo dell’Altro è sostanzialmente il luogo dell’inconscio, individuato dunque ancora internamente; in un secondo momento l’Altro diventa il luogo dell’intersoggettività della parola, dove sensi e significati dipendono da accordi tra i soggetti o dal senso comune. In seguito il luogo dell’Altro diventa il luogo del linguaggio: sarà proprio il linguaggio, infatti, la condizione che farà emergere la soggettività e dunque l’essere umano verrà da questo determinato. Per essere riconosciuto nella comunità di riferimento dunque, l’individuo dovrà sottomettersi alle leggi sociali, veicolate dal simbolismo linguistico. Il soggetto dovrà dunque avere una relazione con il significante e, qualora questa non dovesse verificarsi, si realizza la follia[3]. Il significante è profondamente legato al significato: è la forma che rinvia al contenuto ed è l’unione tra forma e contenuto che crea il segno: «qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo».[4]

VOGLIO SOLO ESSERE CAPITO

Dunque la lingua diventa discriminante immediata tra il sé e
l’altro: la separazione tra il «tu non mi capisci» e il «mi hai capito al volo» è causa di guerre feroci o di grandi amori. Quindi, se la metafora di Babele diventa simbolo della punizione divina per l’arroganza umana, si può ben intuire come la separazione linguistica sia una difficile prova da superare per gli individui. La si incontra giù sul territorio di confine, non c’è bisogno di arrivare al cuore: la lingua è la prima evidente prova della diversità culturale tra ciò che ci è familiare e ciò che ci è estraneo, fermo restando rimanere nell’ordine delle idee che la diversità sia solo ed esclusivamente un problema di ordine pratico relativo all’appartenenza a sistemi di riferimento, norme e valori differenti. Che poi «la difesa della diversità culturale è un imperativo etico, inscindibile dal rispetto della dignità della persona umana. Essa implica l’impegno a rispettare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, in particolare i diritti delle minoranze e dei popoli autoctoni. Nessuno può invocare la diversità culturale per minacciare i diritti dell’uomo garantiti dal diritto internazionale, né per limitarne la portata»,[5] è ancora da vedere. Diversità di vedute e imposizioni identitarie fanno delle linee di confine territori minacciosi e inospitali.

FRONTIERE

Penso alle frontiere, dove il messaggio «entri solo se sei a posto» è via via diventato un potere esercitato in nome di un interesse tutt’altro che difensivo; penso ai muri, come quello di Berlino o quello di Tijuana; penso alle strisce, come quella di Gaza; penso alle isole di confine, come Lampedusa; penso agli embarghi, come quello di Cuba.
Penso al venir meno delle grandi narrazioni metafisiche – illuminismo, idealismo, marxismo – che hanno giustificato ideologicamente la coesione sociale e ne hanno ispirato, nella modernità, le utopie rivoluzionarie. Con il declino del pensiero totalizzante si è aperto, così, il problema di reperire criteri di giudizio e di legittimazione che abbiano valore locale e non più universale.[6] Penso che basterebbe guardare l’Altro negli occhi, fino in fondo, per riscoprire, molto semplicemente, che è proprio come noi: siamo umani.

NOTE

[1] Emmanuel Levinas: Alterità e trascendenza — Il Melangolo — 2006

[2] Benedict Anderson: Comunità immaginate — Manifestolibri — 2009

[3] Silvia Vegetti Finzi: Storia della psicoanalisi — Oscar Mondadori — 1990

[4] Ferdinand de Saussure: Corso di linguistica generale — Editori Laterza — 2009

[5] Unesco: Dichiarazione universale sulla diversità culturale — 2001

[6] Jean-François Lyotard: La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere — Feltrinelli — 2002

La foto di apertura è di Sandro Montefusco, scattata a Tijuana, fa parte del progetto “Uomini sul confine”. Maggiori info qui


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.12, “LA LINEA DI CONFINE”, NELLA SEZIONE VISIONI — DICEMBRE 2017

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