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Sin dagli anni del dopoguerra, le narrazioni di Rossellini, Visconti, De Sica, Germi e altri autori del neorealismo, non ultimi Fellini e Pasolini, documentando la realtà, hanno contribuito a costruire l’immaginario delle periferie che ha assunto un aspetto peculiare.

Sugli schermi si lavavano i panni sporchi, si esibiva prepotenza e miseria, morale e materiale. Personaggi brutti, sporchi e cattivi [1] o semplicemente poveri e miserabili, in opposizione alla centralità della fabbrica, al nuovo capitalismo e al boom economico, riflettevano esattamente lo specchio di un’Italia da ricostruire, frammentata e in cerca, a volte sì e a volte no, di quel riscatto nutrito dal desiderio di lasciare tutto e ricominciare daccapo. Passano molti anni, cambiano le tecniche cinematografiche, i contesti e gli scenari, ma l’immaginario no: la periferia romana raccontata da Garrone in Dogman [2] o la periferia di Parigi raccontata in Les Misérables di Ladj Ly [3] mostrano ancora personaggi con la barba incolta, indumenti strappati, ma soprattutto arrabbiati o delusi, in lotta con se stessi e con il mondo. Siamo dunque al cospetto di una retorica che vuole la periferia lontana e disagiata, uno spazio del pericolo, del diverso. Unica raccomandazione per tutelare la salvezza: non vi allontanate. D’altronde, perché allontanarsi dal centro? Per arrivare laddove non arrivano i bus, dove architetture fantasma — come grandi caverne, tana del mostro — sembrano cattedrali nel deserto, celano brulichii e mondi sommersi. Gli spazi aperti sono privi di qualsiasi punto di riferimento, di ristoro, di divertimento, di pubblica o privata utilità. Spazi dove la sopravvivenza è garantita solo ed esclusivamente dalla capacità dei singoli — che sovente si riuniscono in bande — di destreggiarsi nell’illegalità. Per dirla con Alberto Abruzzese, siamo di fronte a una intensità umana che si fa carne viva: qui il corpo glorioso, divinizzato, dell’essere umano viene messo in scena nel momento — senza Dio e senza Uomini — del suo sacrificio. Del suo dono in sé. La periferia è qui considerata un luogo di umanità negata e mortificata. Eppure trionfante. [4] Trionfante perché è proprio nelle periferie, che custodiscono una fortissima connotazione identitaria, che ha luogo la trasformazione sociale e culturale simbolo del riscatto. Penso per esempio ai processi di gentrificazione a Napoli che stanno restituendo dignità a posti come i quartieri, oggi meta di diversi percorsi turistici e scrigno di molte produzioni culturali e teatrali che nascono dal basso — non per questo meno interessanti. Penso che ci sono realtà virtuose, che dove prima si vendeva la droga, oggi si spacciano libri: è la storia di Marotta&Cafiero editori, raccontata in questo numero dalla mia amica e collega Manuela Giuliano. Penso al pane del forno Sammarco, diventato simbolo del passaggio di saperi generazionali. Penso al lavoro di diffusione capillare delle tematiche relative all’innovazione in salute del gruppo Pro.m.i.s della Regione Campania, impegnato a restituire senso locale alle direttive dell’Unione Europea. Penso a Orione, che in linea con i principi dell’editore Fondazione Sinapsi prova a raccontare i punti di vista fuori dal mainstream del centro, forte della convinzione della tutela delle fragilità e dell’arma della cultura come base per un cambiamento mentale che renda il mondo — non solo quello fisico — accessibile, privo di barriere. Mai Orione ha avuto contributi così internazionali come in questo numero: abbiamo raccolto riflessioni di esperienze di periferia vissute in Marocco, in Equador, a Gerusalemme. E per finire, con una punta di orgoglio, penso alla missione stessa della fondazione. Sin dalla visione originaria dei fondatori, Fondazione Sinapsi si è posta al centro del dibattito sulle periferie: obiettivo era quello di arrivare, con i suoi servizi, ai minori ciechi o ipovedenti nei territori della Campania e della Basilicata colpiti dal grande terremoto dell’80. Oggi gli operatori della Fondazione Sinapsi lavorano quotidianamente non solo nelle periferie geografiche, ma anche sulla metafora della periferia. I nostri servizi si inscrivono in un settore che nessuna organizzazione pubblica o privata in Italia offre gratuitamente: l’équipe di professionisti — educatori, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali — mettono al centro del progetto socio-psico-educativo il minore, la sua famiglia e il suo contesto sociale, per definire insieme gli obiettivi funzionali al miglioramento della qualità della vita, in un’ottica di benessere. In questo modo Fondazione Sinapsi è in grado di offrire un servizio (sociale, educativo, psicologico) altamente personalizzato, facendo di ogni persona un centro.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N.20, “PERIFERIE”, NELLA SEZIONE INTERVISTA — AGOSTO 2020

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