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Nella mitologia classica, la metamorfosi è il linguaggio degli dei. Nei versi di Ovidio, il cambiamento di forma è un atto sacro, un passaggio che rivela la verità profonda degli esseri umani.

Dafne che si fa alloro per sfuggire ad Apollo, Aracne che diventa ragno dopo aver sfidato Atena, Eco che svanisce nella sola voce: ogni storia è un simbolo che parla dell’irriducibilità dell’essere al proprio corpo, alla propria identità sociale o sessuale. Ovidio non descrive semplici trasformazioni: mette in scena l’anima che, non trovando spazio, si reinventa in altra materia. Con Franz Kafka, la metamorfosi non ha più nulla di epico né di poetico. Gregor Samsa si sveglia una mattina trasformato in un “enorme insetto immondo”, e da quel momento si consuma la tragedia dell’uomo moderno: l’impossibilità di essere compreso, accettato, riconosciuto. Il mutamento kafkiano è silenzioso, assurdo, irrimediabile — ed è il simbolo di una società che espelle chi devia, chi si disarticola dai suoi ruoli. Ma Kafka ci consegna anche un’altra verità: che ogni trasformazione autentica ci isola, ci espone, ci rivela. In epoca contemporanea, la metamorfosi ha assunto nuove forme e significati. È mutamento del corpo, ma anche della mente e della coscienza.

Le neuroscienze ci hanno mostrato quanto sia plastico il cervello umano: strutture cerebrali che si riorganizzano, sinapsi che si rinforzano o si indeboliscono a seconda dell’esperienza. Cambiare idea, imparare una lingua, superare un trauma — sono tutte forme di metamorfosi neurobiologica. Come scrive Oliver Sacks, «ogni atto di memoria è un atto di immaginazione»: ricordare è reinventare, e dunque trasformare. Allo stesso modo, la genetica ha riscritto il concetto stesso di identità biologica. Il genoma umano, lungi dall’essere una struttura fissa, si mostra come un archivio di possibilità. Gli studi sull’epigenetica rivelano che non ereditiamo solo geni, ma anche modi di attivare o silenziare quelle informazioni a seconda dell’ambiente, delle emozioni, delle relazioni. Non siamo solo ciò che ci è stato dato: siamo ciò che il tempo e l’esperienza hanno saputo risvegliare in noi. La letteratura intercetta e anticipa queste metamorfosi. Pensiamo a Orlando di Virginia Woolf, che attraversa i secoli e i generi sessuali, incarnando la fluidità dell’identità ben prima che diventasse un tema politico. Nei romanzi postmoderni — da Italo Calvino a Don DeLillo — il soggetto non è più stabile, ma frammentato, molteplice, talvolta virtuale. La metamorfosi non è più una rottura, ma la norma.

Nella nostra epoca digitale, cambiare avatar, riscrivere la propria biografia online, modificare il corpo attraverso la chirurgia o la farmacologia, è parte della quotidianità. Ma in questa proliferazione di forme, si nasconde una domanda urgente: cosa resta di “noi” quando tutto può. Zygmunt Bauman, tra i più acuti interpreti della modernità, ha coniato l’espressione modernità liquida per descrivere una condizione storica in cui nulla è più stabile: né i ruoli sociali, né le relazioni affettive, né le istituzioni. In questo scenario, l’identità personale non è più un destino, ma un compito continuo. La metamorfosi diventa una condizione esistenziale, una forma di adattamento necessaria. Ma questa libertà di mutare si accompagna all’angoscia di doversi sempre reinventare, di “essere all’altezza” di un sé che non è mai definitivo. Anche Ulrich Beck, parlando di società del rischio, individua nella metamorfosi un tratto costitutivo del nostro tempo. Le trasformazioni globali — ambientali, tecnologiche, economiche — costringono gli individui a ridefinire continuamente le proprie strategie di sopravvivenza. Le categorie sociali tradizionali, come la classe o la professione, non offrono più una cornice stabile.

Il mutamento, una volta eccezione o dramma, diventa la norma. Ma è con il pensiero di Michel Foucault che la metamorfosi si carica di una nuova tensione politica. Nei suoi studi sul corpo e sul potere, Foucault mostra come le trasformazioni dell’identità siano sempre attraversate da forze disciplinari, da norme sociali che prescrivono cosa è accettabile e cosa no. Il soggetto che cambia — che si trasforma, che devia — entra in conflitto con i dispositivi che vorrebbero catalogarlo. La metamorfosi, allora, è anche un atto di resistenza: un sabotaggio delle griglie del potere. In questa linea si inserisce anche il pensiero di Judith Butler, che ha ridefinito l’identità di genere come performance, come atto ripetuto che può essere anche disobbedito. Il genere non è un’essenza da rivelare, ma una forma che si può modulare, modificare, reinventare. In questa prospettiva, la metamorfosi non è un’anomalia, ma una pratica di libertà. Il corpo stesso, lungi dall’essere un dato naturale, diventa il campo di battaglia su cui si gioca la tensione tra norme sociali e desiderio individuale.

Tutto questo dialoga profondamente con la letteratura. Quando Kafka fa di Gregor un mostro, non sta solo parlando dell’alienazione dell’individuo moderno, ma della violenza che la norma esercita su chi muta. Quando Woolf fa attraversare a Orlando i secoli e i generi, sta anticipando con grazia letteraria quello che Butler dirà con rigore filosofico: che l’identità è una pratica e non un’essenza. Così, la metamorfosi non è più soltanto un evento biologico o psichico, ma un’esperienza sociale totale. Essa riflette la crisi dei paradigmi fissi, ma anche l’emergere di nuove possibilità di esistenza. In una società che muta a velocità vertiginosa — tra intelligenze artificiali, mutamenti climatici, rivoluzioni di genere — il soggetto che non cambia rischia l’esclusione.

Ma non tutti possono mutare allo stesso modo. La sociologia ci ricorda che le possibilità di metamorfosi sono distribuite in modo diseguale: per ceto, per razza, per genere, per accesso alla tecnologia. La libertà di trasformarsi può essere un privilegio. Ecco perché raccontare la metamorfosi, oggi, significa anche raccontare il conflitto tra chi può scegliere la propria forma — e chi è costretto a subirla. Eppure, nonostante tutto, la metamorfosi resta la cifra più profonda dell’esistenza. Siamo animali narrativi, sì, ma anche animali mutanti. E in un’epoca che ci vuole veloci, adattabili, performanti, ricordare che cambiare può essere anche un atto poetico, doloroso, necessario — è un gesto di umanità.


QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU ORIONE N. 35, “METAMORFOSI”, NELLA SEZIONE EDITORIALE — SETTEMBRE-DICEMBRE 2025

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